ANTIPASTO
Ci sono tanti modi per iniziare un racconto come questo, ma credo che l’incipit migliore sia “magna e tasi”. Vi chiederete perché cominciare proprio in questo modo ma senza farci tanti giri intorno vi svelerò subito l’arcano segreto.
“Magna e tasi” era il motto di un omone il cui peso si aggirava attorno ai 120 kg, il cui segno zodiacale della vergine incideva sul suo modus operandi lavorativo, il cui piatto preferito era… era… forse non aveva un piatto preferito, l’ho sempre visto mangiare qualsiasi cosa. D’altronde bisognava mangiare, sì, mangiare e stare zitti.
PRIMO PIATTO
Credo che il protagonista di questa storia, l’omone, mio nonno, il papa (per molti), abbia sempre avuto fame. Una volta mangiò tutto il contorno di un piatto di risotto lasciando solo il centro totalmente intatto perché diventato il dolce giaciglio di una cimice. Ovviamente chiese gentilmente al cameriere di portargli un secondo piatto gratuito visto l’incidente. Due piatti al prezzo di uno. Il risotto però nascondeva anche una fame un po’ diversa, quella che spinse il nonno a metà degli anni ’50, a soli 17 anni, a trasferirsi da Segusino, paesino veneto con poco meno di 2000 abitanti, al capoluogo emiliano, terra del ragù e dello gnocco fritto: dolce e bella Bologna.
Per i dieci anni a seguire, lavorando all’interno di un laboratorio specializzato in montature e lenti, apprese pian piano l’arte del mestiere.
Tra un bicchiere di Lambrusco e l’altro però, negli anni ’70, Bologna divenne un po’ meno dolce, considerando lo stato di terrore che avevano scatenato le brigate rosse. Forse infatti il periodo un po’ meno indicato per decidere di aprire un’ottica nel cuore pulsante della città. Le cose come si poteva immaginare non andarono poi così bene, ma quella fame il nonno non se la toglieva dalla testa. Non bastavano lasagne e tagliatelle.
Così la primissima occasione di tornare in territorio veneto venne colta al volo. Passare dal Pignoletto al Prosecco fu quasi un sollievo. Il nonno tornò nuovamente al lavoro in fabbrica, al taglio di montature e di qualche lente. Sveglia presto, lavoro, “magna e tasi”, lavoro e partite a briscola in compagnia. Questo per altri 10 anni.
SECONDO PIATTO

In questo modo i risparmi cominciarono ad aumentare, così come le competenze acquisite e in maniera direttamente proporzionale anche un po’ la fortuna. Dopo qualche rinuncia ma con un figlio e una moglie pronti a sostenerlo, nel 1983 il nonno riuscì a saziare la fame.
Ottica Cabrel in Via Santa Lucia 26 aprì ufficialmente le porte al pubblico. Dal lunedì al venerdì il lavoro in fabbrica continuava, poi la nonna e il nonno aprivano l’ottica la sera, che restava aperta tutto il giorno invece di sabato e domenica.
L’idea geniale del nonno fu quella di costruire una cantina sotto al negozio che ufficialmente doveva fungere da magazzino, poi nella pratica si trattava solo di ottimizzazione di tempi.
Via Santa Lucia dista almeno 10 minuti a piedi dalla piazza di Segusino dove si trova il bar “da Sbreck”, sempre stato pronto ad ospitare il nonno, sia chiaro. Diciamo però che la cantina sotto l’ottica faceva risparmiare quei 10 minuti se si voleva bere un buon bicchiere di vino in compagnia. Alle volte succede tutt’ora che qualche cliente mi racconta cosa succedeva lì sotto, anche se i ricordi sono sempre annebbiati, non credo per l’età.
Comunque grazie al passaparola i clienti aumentarono e con loro anche il lavoro (e sì anche le bottiglie vuote in cantina se ve lo stavate chiedendo), tanto che ci fu la necessità di dedicarsi completamente all’ottica abbandonando definitivamente la fabbrica.
Gli anni passarono e gli insegnamenti del nonno vennero trasmessi anche a mio padre. Papà mi racconta che le litigate all’inizio erano all’ordine del giorno, ma presto si stabilì un equilibrio. La nonna serviva i clienti, faceva scegliere loro la montatura, papà si occupava della misurazione della vista e il nonno aveva la piena gestione della parte del laboratorio.
Ognuno aveva la propria mansione, si incastravano perfettamente, come tre pezzi del Tetris, forse quello della nonna oltre ad immaginarmelo di un colore fosforescente lo vedo un po’ più spigoloso degli altri, considerando il caratterino.
Comunque i tre pezzi di Tetris divennero presto cinque e si aggiunsero altri colori fosforescenti, quello di Mariangela, nipote del nonno e cugina di papà, e di Lorella, mia mamma.
Solitamente mentre gusti il secondo piatto capisci subito se ti è rimasto lo spazio per il dessert. In questo caso credo che lo spazio sia paragonabile a quello per un buon tiramisù.
DESSERT
Ci sono tante cose che si potrebbero ancora raccontare sul nonno, sull’ottica, su come i colori fosforescenti ogni tanto l’hanno fatto innervosire o su come l’hanno aiutato durante tutti i momenti difficili, su come anche io e mio fratello siamo finiti a far parte di questo piccolo grande progetto, sul quarantesimo compleanno dell’ottica e del regalo che le abbiamo fatto ristrutturandola interamente, ma visto che siamo in tema dessert voglio concludere con un po’ di zucchero.
Non ho ancora spiegato il perché del soprannome “papa”, in molti credono sia per la stazza, altri sospettano una parentela con il capo della chiesa e chissà quali altre teorie complottiste. La verità sta però dietro alla generosità delle sue azioni.
Dopo la sua morte non ho idea di quante persone, clienti ed amici mi abbiano descritto il nonno come una persona buona, onesta, sempre disponibile ad aiutare il prossimo, anche quando il prossimo alle volte non lo meritava.
Credo che questo rimanga il suo secondo più grande insegnamento. Essere onesti, sempre. Tranne se devi ordinare un secondo piatto di risotto perché nel primo c’è una cimice, in quel caso: “magna e tasi”, primo grande insegnamento.
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